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La guerra in Ucraina ci costringe a un risveglio di coscienza. Una lettera aperta dalla Georgia all’Italia.

Di Nodar Ladaria

Io non sono un esperto militare per supporre il possibile esito della guerra. Non sono psichiatra per parlare sulla probabilità d’un attacco nucleare da parte della Russia. La mia ansia sta altrove: nelle reazioni degli intellettuali e politici italiani.

Non mi dilungherò sugli esempi concreti, anche se ce n’erano di molto dolenti per me. Posso capire, ma non giustificare coloro che hanno studiato in Russia: tutti noi serbiamo nel cuore i dolci ricordi della gioventù passata all’estero. Col tempo questi ricordi crescono nell’anima, prendono più spazio, acquistano maggior significato. Ma non devono forzare i limiti del buon senso. Capisco che molti studiosi italiani siano attaccati a Mosca, ma il pezzo della realtà rimasto nella loro memoria non potrà superare gli orribili fatti di oggi. La Russia non fa la guerra in Ucraina, fa il massacro.

Mi dispiace soprattutto per gli studiosi che non avendo i diretti rapporti con Mosca, sono rimasti invece vittime del proprio professionalismo. Infatti, non è caso di parlare di Rus di Kiev. Sarebbe come discutere sulla nazionalità di Carlo Magno: era egli tedesco o francese? L’identità del popolo Ucraino andava creandosi attraverso ben altri percorsi. E la corrente guerra coronerà questo cammino pieno di ostacoli. Qualunque sia la fine, per sentirsi ucraino, non ci sarà più bisogno di San Vladimiro, di eredità storica di “antichi ucri” e altre stampelle storiosofiche.

E’ chiaro che la posizione d’un vigliacco è sempre descrivibile con la frase: “Non svegliate la bestia!” Ma io non vorrei soffermare su questo momento e mi limito di un piccolo riferimento alla degradazione dello spirito vitale nell’Occidente, su cui ama parlare Umberto Galimberti.

Io vorrei parlare di altro: del cambiamento che dovrà subire nella coscienza occidentale tutta la cultura russa. Parlare di una grande rilettura. Intendo la rilettura non soltanto di testi e artefatti della cultura Russa, ma anche le dichiarazioni e interpretazioni politiche fatte dai leader russi attraverso i secoli e di recente.

Negli anni ’90, quando vivevo a Roma, in vigilia di elezioni, alcuni slavisti italiani biasimavano Romano Prodi che, secondo loro, avrebbe detto durante un incontro con gli elettori: “Unione Sovietica? Voi intendete il paese, dove nelle latrine pubbliche non ci sono pareti tra un cesso e l’altro?”. Gli amici mi dicevano che Prodi avesse offeso la cultura russa. Ma non è così. Prodi fece notare la mancanza di cultura, l’assenza di rispetto verso la dignità umana

Purtroppo, nel nostro caso, le condizioni delle latrine pubbliche servono da miglior indizio per capire quanto succede con la Russia che i romanzi di Tolstoi o le opere di Mussorgski. E la chiave di questo problema sta nella struttura della società russa sempre divisa in due.

Non è una semplice differenza tra le classi sociali. Non è neanche la mancanza degli “ascensori” che dirigono verso l’alto. Anche in Russia in ogni epoca possiamo trovare individui di origini umili che sono riusciti a raggiungere qualche vertice sociale. Ma in Russia questo significava passare da un popolo all’altro, da un etnia all’altra. Quelli che stavano giù non erano semplicemente più poveri, essi non avevano faccia umana.

Ricordate un colonizzatore bianco di Tasmania che raccoglieva le orecchie mozzate degli indigeni per ricevere il premio? Un signore russo non aveva nessun bisogno delle teorie razziali per avere un simile atteggiamento verso i propri servi di gleba o altri popoli. E’ per questo che molti studiosi russi oggi parlano di una “colonizzazione interna”, intendendo crescita e sviluppo dell’Impero russo.

E così, gli intellettuali russi a partire dalla seconda metà del Settecento cominciarono a imparare dall’Europa il modo di esprimere i sentimenti. La cosa era molto semplice e lineare: leggevano Stern, Schiller e altri, cercando di esprimere le proprie emozioni in modo simile. Hanno imparato bene, ma non di sentire, ma di esprimersi anche senza sentire realmente. Così anche Pushkin offriva al lettore le splendide sinossi di Shakespeare, di Byron. La tecnica d’imitazione diventava vieppiù soffisticata e più tardi era difficile intravedere Hugo nel Tolstoi e Dikkens nel Dostoevski… Ma io non dico niente di nuovo. Tutto questo è già luogo comune nella critica letteraria russa.

L’occidente ammirava la propria immagine nella letteratura, nella musica, nella pittura provenieti dalla Russia, ma tutto ciò era assolutamente chiuso per la maggioranza dei russi stessi. Per un contadino abitante vicino a Mosca “Anna Karenina” era ugualmente inacessibile, come l’originale di “Genzi monogatari”.

L’Unione sovietica, anch’essa era uno Stato feudale. L’abisso tra le classi o, meglio dire, gruppi sociali era il modus vivendi della società. Paradossalmente il senso della dignità personale si basava sulla totale scarsità di merci. Ciascuno che aveva accesso ai vestiti importati dall’estero o ai cibi prelibati si sentiva signore e disprezzava altri. Possiamo anche non parlare di Gulag. Il valore basso della vita e dignità umane non cresceva con la liberazione dal culto di Stalin. E questo modo selvaggio di vivere tra paura e disprezzo che forgiava a poco a poco l’identità del famigerato Homo Sovieticus non entrava in nessun conflitto con l’ideologia ufficiale. Quest’ultima si è presto trasformata in wooden language, gergo privo di gusto e significato.

Il luogo della cultura rimase lo stesso: stare in un continuo ed inutile dialogo con il potere. Così possiamo capire il più sincero romanzo russo del Novecento, “Il maestro e Margerita” di Mikhail Bulgakov. Spesso lo chiamano romanzo per un solo lettore. Bulgakov dice a Stalin: fai quello che vuoi, ma non tocca gli artisti, perché saremo noi a suggerirti chi devi ammazzare. In questa chiave dobbiamo rileggere oggi la cultura russa di due secoli precedenti. La rilettura è necessaria, perché per l’Occidente sono rimasti chiusi i testi politici russi, percepiti come se essi fossero espressione adeguata delle intenzioni e non una variante di abituale wooden language. Così, quando Putin parla di una rivendicazione storica, non ha niente a che fare con la memoria collettiva o altri costrutti mentali dell’Occidente. E’ solo una vernice, una decorazione simile al suo discorso annuale ogni 31 dicembre che serve solo da segnale per aprire la bottiglia di spumante, perché nessuno ne ascolta il contenuto. Parlando di storia Putin non esprime niente, solo emette un ordine per caricare i cannoni.

In Europa si ripete spesso: non esiste la poesia dopo l’Auschwitz. Oggi possiamo dire: non esiste Dostoevski dopo Putin.

Nodar Ladaria è Ordinario di Studi culturali presso l’Università Statale Ilia a Tbilisi (Georgia).

Nato nel 1960 a Sukhumi. Nel 1981 compie gli studi nell’Università Statale di Tbilisi (oggi l’Università Statale Javakhishvili) con la specializzazione di Fisica nucleare di alta energia.

Negli anni 1981 – 1989 lavora negli istituti di fisica a Tbilisi, a Dubna (Russia) e Protvino (Russia).

Nel 1989 diventa studente presso l’Accademia teologica di Tbilisi, da dove è stato espulso per disubbidienza.

Nel 1992 continua gli studi presso Pontificio Istituto Orientale a Roma, dove nel 1996 consegue il grado di Dottore delle Scienze ecclesiastiche orientali.

Nel 2008 consegue il Premio statale italiano per la traduzione letteraria e diffusione della cultura italiana.

Per i 15 anni è stato editorialista presso il quotidiano georgiano “24 Ore”. E’ autore di un romanzo e di molte traduzioni dall’italiano e dal Russo.